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Uno studio di Chiara Cecalupo

Palestrina, Museo Archeologico Nazionale, Mosaico nilotico
Palestrina, Museo Archeologico Nazionale, Mosaico nilotico

Negli Atti del XX Colloquio dell’Associazione Italiana per lo studio e la conservazione del mosaico, tenuto a Roma dal 19 al 22 marzo 2014, e curati da Claudia Angelelli e Andrea Paribeni, figura anche un contributo di Chiara Cecalupo – nella sezione “Storia del restauro, nuovi restauri e tecnologie applicate allo studio e al restauro” – relativo al Mosaico Barberini: Giovanni Calandra e il restauro del mosaico nilotico di Palestrina nel XVII secolo (pp. 639-646).

Nell’articolo, Chiara Cecalupo ripercorre le vicende storiche del mosaico, dalla sua scoperta e mette in evidenza come il suo restauro, compiuto da Giovanni Calandra tra gli anni ‘30 e ‘40 del Seicento, sia un “caso emblematico delle tecniche e delle idee seicentesche relative al restauro del mosaico antico”.

Le prime notizie relative al mosaico risalgono agli ultimi anni del Quattrocento, ma al mondo scientifico fu fatto conoscere da Federico Cesi, venuto a Palestrina nel 1614 per celebrare le sue nozze con Artemisia Colonna. Della relazione di Cesi ne rimane una versione trascritta nel 1630 e inviata al cardinal Francesco Barberini e corredata da due incisioni di particolari tra cui la figura di uno struzzo che non é presente nel mosaico attuale, forse persa o trafugata.

Tra il 1624 e il 1626 il mosaico fu fatto sezionare in diversi pezzi dal cardinal Andrea Peretti e trasportato in Roma. Alcuni di questi furono donati da Peretti ad altri ecclesiastici, altri giunsero al Cardinal Lorenzo Magalotti, zio di Francesco Barberini, la cui famiglia nel 1630 aveva acquistato il feudo di Palestrina. Magalotti fece dono dei pezzi di mosaico in suo possesso al Barberini, tranne quello rappresentante una pergola, che era stato donato al Granduca Ferdinando II de’ Medici nel marzo 1628 durante una sua visita a Roma. Il frammento della pergola ricomparve nel 1742 a Firenze quando Francesco Gori disse di averlo visto in vendita in un mercato; non si sa come poi sia andato a finire a Berlino dove è esposto negli Staatliche Museen.

Il compito di riassemblare i pezzi recuperati fu affidato dal Barberini a Giovanni Calandra, mosaicista di Vercelli che si era già distinto per i cartoni dei mosaici di San Pietro e probabilmente lavorò i frammenti nel suo studio romano e poi a Palestrina per il loro ricongiungimento. Finito il lavoro di restauro, nel 1640, i pezzi del mosaico però furono “mal incassati a causa dell’armatura a rovescio delle casse” per cui si danneggiarono di nuovo, molte tessere si staccarono mischiandosi. Calandra fu costretto allora a fare un secondo restauro, questa volta a Palestrina, probabilmente negli anni 1641-42.

Tra il 1853 e il 1855 il mosaico subì un altro restauro, “condotto dal dritto senza ricostruire il fondo, – come scrive Cecalupo – quindi il retro di ogni lastra è ascrivibile ai lavori del Calandra, che proprio in virtù di una ricomposizione generale di brandelli e lacerti, ha operato a rovescio per legare tutte le parti”.

Solo con l’ultimo intervento di restauro, terminato nel 1955 da Salvatore Aurigemma, é stato possibile determinare gli interventi, i tagli e le aggiunte del Seicento. “Il retro di ognuno dei pezzi é composto da una serie di lastrine di peperino giustapposte, dello spessore di 3 cm. Massimo, che poggiano su uno spesso strato di pece greca semifluida mista a zolfo che viene stesa nel Seicento evidentemente per amalgamare meglio i brani originali con le parti nuove.… E’ stato inoltre sottolineato come le tessere utilizzate dal Calandra siano state, al termine dei lavori e secondo consuetudine, levigate a ruota e che, per rendere il colore il più possibile simile a quello antico, é stato rilevato l’uso di vernici ad olio e cere colorate passate sulle singole tessere e rimosse a spazzola nel Novecento”.

Non esistono raffigurazioni del mosaico intero prima del distacco e, per il restauro, Calandra utilizzò i 19 acquerelli commissionati da Cassiano Dal Pozzo per il suo Museo Cartaceo, attenendosi fedelmente ad essi, ma per alcuni ricostruendoli non nella posizione originaria; ciò probabilmente per rendere la scena più simmetrica ed equilibrata, che corrispondesse armonicamente alla forma della collocazione. Alcune parti dei disegni, come l’elefante e il parasole, non furono presi in considerazione da Calandra, forse perché distrutte o definitivamente perdute; nel mosaico attuale, infatti, di essi non ci sono tracce.

“Il Cardinale loda l’opera del Calandra – conclude il suo saggio Chiara Cecalupo – evidenziando come l’intervento sia riuscito a ridare totale integrità all’opera”.

 

Angelo Pinci

www.angelopinci.it

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