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E’ il sogno di qualsiasi esploratore, di qualsiasi archeologo quello di imbattersi in un’antica città, priva di vita da secoli, ma conservata tutto sommato bene. Una città che presenti ancora iscrizioni e monumenti, che racconti in qualche modo la vita di coloro che la hanno abitata, e che possibilmente restituisca qualcosa che possa servire per capirne la cultura, le dinamiche di vita sociale, religiosa e politica, e perché no, che dia modo di trovare l’immancabile tesoro, che sia sotto forma di gioielli, di oro o di qualsiasi cosa di prezioso. Palenque ha esaudito tutti questi desideri, rivelando, sopratutto nel corso della seconda metà dello scorso secolo, una storia che ci ha permesso di conoscere meglio gli antichi abitanti che la popolavano, su un’estensione di circa 15 km, e che la abbandonarono inspiegabilmente nel pieno del suo fulgore.

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Situata a 3000 metri di altitudine, nello stato messicano del Chiapas, sull’estremo lembo del confine messicano non lontano dai confini con il Guatemala, la città stato è rimasta quasi invisibile agli occhi umani per secoli, protetta dall’onnipresente giungla e da una nebbia provocata dallo scorrere del fiume Usumacinta, che provoca uno scambio termico con l’aria. Già abitata nel corso del I secolo AC, Palenque ha visto crescere il suo prestigio lentamente ma con costanza, fino al massimo splendore che coincide con il regno di Kin Pacal detto il grande, che regnò dal 615 al 683 d.C., data della sua morte. Pacal portò lustro e splendore nella città stato, edificando templi e inaugurando una stagione di prosperità senza precedenti: alla sua morte lo splendore e la magnificenza della città stato diminuirono progressivamente, fino al X secolo, quando come già detto all’inizio la città venne progressivamente abbandonata, fino a diventare deserta del tutto. Questo è uno degli enigmi che da sempre fanno ammattire gli studiosi; cosa può aver spinto la popolazione locale ad abbandonare un territorio così avanzato dal punto di vista della civiltà, una città ricca di templi, costruzioni e abitazioni?

Pacal il grande

Un catastrofe naturale è poco probabile, visto che avrebbe dovuto colpire non solo gli abitanti, ma anche i manufatti; forse vi fu un’emigrazione di massa di altri popoli che cacciarono i residenti, ma anche in questo caso viene da chiedersi dove siano finiti poi i nuovi abitanti, e sopratutto come abbiano fatto a conquistare la città stato senza intaccarne i monumenti. L’ipotesi più probabile è un’emigrazione di massa dovuta all’improvviso inaridimento del suolo, che costrinse i Maya a lasciare la zona alla ricerca di un territorio fertile. Ma ovviamente è solo una supposizione, perché gli stessi Maya, se lasciarono scritto qualcosa sugli avvenimenti, videro tutte le loro testimonianze scritte distrutte dalla furia iconoclasta degli spagnoli, con i tristemente famosi auto da fè che bruciarono tutta la cultura scritta Maya salvo sporadiche eccezioni.

Comunque sia andata, Palenque diventò una ghost town, cosa dimostrata dall’arrivo degli spagnoli nel 1519. I conquistadores, affamati di oro e pietre preziose, giunsero nella città con un piccolo corpo di spedizione guidato da Padre Pedro Lorenzo de la Nada; fu lui a dare il nome di Palenque alla città, traducendo male il nome Maya della città, ricordata dai discendenti del grande popolo che abitavano quella zona nel 1561 come la “terra con forti case, delle case robuste” Pedro Lorenzo de la Nada la chiamò fortezza, Palenque in spagnolo, e da quel momento la città stato prese la denominazione che conosciamo ancor oggi; il religioso si integrò bene con la popolazione locale, riuscì a creare una comunità di indigeni locali e li convinse a ripopolare la città. Lasciò i suoi protetti per tornare in Spagna, dove si preoccupò di costituire uno stato giuridico per la sua gente, portando con sé tre campane da mettere nelle chiese che aveva costruito, una delle quali soltanto è sopravissuta fino ai giorni nostri. Palenque ritornò nell’oscurità della storia, prima di essere nuovamente scoperta da Stephens e Catherwood, i due archeologi e viaggiatori che girarono in lungo e in largo il Messico, e che contribuirono in maniera determinante alla riscoperta di Chichen Itza; ma ancora una volta la città stato scomparve dalle cronache, prima di essere scoperta nuovamente, e questa volta in maniera definitiva, nel 1930, quando un gruppo di archeologi capitanati da M. A. Fernandez in collaborazione con F. Blom e Ruz Lhuil­lier intraprese una campagna di scavi che riportò alla luce tutti i templi più importanti della città, in particolare il Tempio delle iscrizioni. Ed è qui che quasi vent’anni dopo avvenne un ritrovamento eccezionale, paragonabile per importanza a quello della tomba di Tutankamen, che, come vedremo, porterà a parlare della “tomba del faraone Maya”. Nel 1949 Alberto Ruz Lhuillier stava svolgendo una campagna di scavi sul territorio di Palenque; un giorno, mentre studiava con attenzione i petroglifi sul Tempio delle iscrizioni, che recavano 625 glifi ispirati alla storia del più grande dei capi di Palenque, Pacal, vide un passaggio segreto nel suolo, ostruito da macerie. Con il fiuto che accompagna sempre l’archeologo di razza, Lhuillier intuì che quel passaggio doveva portare a qualche cosa di importante.

foto 2 il gruppo di archeologi capitanati fa Fernandez

La tomba di Pacal

L’intuizione si trasformò in certezza quando l’archeologo vide che sotto le macerie c’erano delle scale; ma dovette attendere tre anni, prima di vedere la sua curiosità appagata; il tempo necessario a rimuovere le oltre 300 tonnellate di macerie che ostruivano il percorso. Ma fu un’attesa premiata con una scoperta che rivoluzionò le conoscenze sul mondo Maya perché al termine di quella scalinata c’era una sala a volta, con al centro un sarcofago decorato, chiuso da una pesante lastra (5 tonnellate); sui lati della stanza, sulle pareti, erano raffigurati 9 dignitari; la stanza stessa misurava 9 mt di lunghezza, 4 di larghezza e 7 di altezza. Quando venne rimosso il pesante coperchio, all’interno del sarcofago si rinvenne il corpo di un uomo, sul cui volto c’era una splendida maschera di giada.

foto 3 la tomba di Pacal

Era il corpo di Pacal il grande, sepolto con tutti gli onori, come il faraone egizio Tutankamen, come lui con il volto coperto da una maschera di straordinaria bellezza; come Carter rispose sinte­ticamente a Lord Carnavon “Vedo cose meravigliose”, così Lhuillier rispose sinteticamente a chi gli chiedeva dell’emozione provata nel momento in cui venne sollevata la pesante lastra tombale di Pacal. “La prima impressione fu quella di contemplare un mosaico verde, rosso e bianco, ma poi il mosaico si scompose in dettagli e vidi ornamenti di verde giada, ossa e denti dipinti di rosso e fram­menti di una maschera”.

Veniva quindi smentita la teoria che voleva le piramidi utilizzate solo a fini religiosi o politici; la cripta contenente il sarcofago di Pacal stava a dimostrare clamorosamente il contrario. La eco della scoperta mise in subbuglio il mondo impolverato degli archeologi, sempre poco disponibili a rive­dere le loro teorie; ma buona parte dello stesso mondo si schierò a difesa dell’autenticità del corpo di Pacal quando alcuni misero in discussione l’identità del corpo ritrovato. La principale obiezione riguardò lo stato di corrosione dei denti, che non corrispondevano ad un uomo di ottant’anni; tuttavia non va dimenticato che Pacal non era un uomo qualsiasi del suo popolo. Era un sovrano con dignità pari a quella di un dio, e con molta probabilità non doveva certo nutrirsi di mais o carne dura.

Ma la polemica più grande, quella che ebbe più vasta eco, riguarda la strana decorazione della lastra tombale del “faraone di Palenque“; la raffigurazione di Pacal, che ascende dal mondo terreno per avviarsi a diventare un dio venne scambiata per un astronauta che è a cavalcioni su un veicolo spaziale. Uno dei primi a parlare dello “sconvolgente rinvenimento” fu lo scrittore Erich von Däniken, una specie di scienziato della domenica specializzato nell’elaborazione di fantasiose teorie che spiegano, attraverso l’intervento alieno, tutte quelle cose che richiedono conoscenze approfondite o studi completi. L’ameno scrittore svizzero sostiene da tempo che sono stati gli alieni a contribuire all’edificazione delle piramidi e della sfinge, che sempre gli alieni sono intervenuti massicciamente per influenzare le civiltà Maya, Incas, Azteca, quella dell’isola di Pasqua e via dicendo, arrivando anche a vedere gli alieni dietro le apparizioni mariane di Lourdes e Fatima. Accanto a lui va citato l’italiano Kolosimo, scomparso da tempo; lo stesso fervore “interventista alieno” pervade gli scritti di Kolosimo, che sposò la tesi stravagante di Von Daniken.

 

 

foto 4 la maschera funeraria di Pacal

La lastra tombale che ricopriva il sarcofago di Pacal

In realtà guardando la lastra funeraria di Pacal, si scorgono elementi classici della religione Maya; c’è il mostro della terra, una pianta di mais (alimento fondamentale dei Maya), l’uccello piumato, il queatzl, comune anche agli Inca, che simboleggia l’essenza stessa della vita. Ovviamente i cultori del mistero si sono affannati a spiegare con l’intervento alieno, la non comune raffigurazione tombale. Dimenticando, ad esempio, che Pacal è raffigurato con addosso solo il perizoma, abbigliamento con il quale, fosse stato alla guida di un veicolo spaziale, avrebbe potuto al massimo alzarsi dal suolo per pochi metri. Non solo. La raffigurazione è limitata solo alla lastra tombale, e se fosse stato vero un incontro ravvicinato tra i Maya e presunti alieni, sarebbe rimasta qualche traccia sulle pareti della tomba, sotto forma di documentazione, vista la rilevanza della cosa. Del resto nel Tempio della croce, ad esempio, elementi religiosi presenti sulla lastra tombale di Pacal sono raffigurati su alcune pareti.

foto 5 la lastra tombale vista dai cultori dell'ipotesi aliena

Tornando a Palenque, il sito presenta numerosi monumenti degni di grande attenzione. In primis va citato il gruppo costituito da tre templi, il Tempio della Croce, quello della Croce Fogliata e il Tempio del Sole, edificati sotto il governo del figlio del grande Pacal, quello di Chan Bahlum (o Chan Balám – Serpente Giaguaro), salito al potere lo stesso anno della morte del padre, il 683. Siamo nel periodo di massimo fulgore dell’architettura Maya, e i risultati sono visibili; il Tempio della Croce presenta la complessa struttura delle consegne del potere da parte di Pacal al figlio, simboleggiata dall’albero della vita, che affonda le radici profondamente nel terreno, nel regno del sotto mondo, che presenta il tronco in superficie a simboleggiare la vita terrena e infine le foglie e i rami che simboleggiano il cielo e quindi la natura divina del re.

Altare sacrificale davanti al Tempio delle iscrizioni

Nel Tempio della Croce Fogliata sono presenti le stesse allegorie, impreziosite dalla pre­senza del mais, fonte di vita come l’acqua. Il Tempio del Sole si distingue invece per le allegorie dedicate alla guerra, vista la presenza di rilievi raffiguranti giaguari. Anche a Palenque è presente il tradizionale campo per il gioco della palla, la cui complessa ritualità è ancora oggi fonte di studio (per la descrizione del rituale sportivo/religioso simboleggiato dalle strutture).

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La parte centrale di Palenque è occupata dal Palacio, un complesso di più strutture che con­tiene splendide raffigurazioni di battaglie, ritratti di sovrani precedenti, e che venne edificato in più di cento anni, aggiungendo alla struttura originaria altri edifici dedicati probabilmente non solo all’esaltazione del potere, ma che fungevano da centro amministrativo e di giustizia. La regina Zak Kuk, madre di Pacal, fece decorare l’interno degli edifici anche con simboli del calendario; particolarmente importanti sono i glifi studiati da Heinrich Berlin, che rivelarono come in una specie di Stele di Rosetta i nomi dei sovrani che si erano alternati nella guida della città. Una delle sorprese che attendevano gli archeologi era rappresentata dalle vistose colorazioni degli edifici, adesso perdute, ma presenti ancora in tracce sulle costruzioni; abbondavano i colori come il giallo, il verde e il blu, oltre al rosso mattone che decorava gli esterni degli edifici.

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