Sharing is caring!

Il ‘900 è stato il secolo che ha cambiato radicalmente non solo l’ Italia, ma anche tutti gli altri paesi del mondo. Straordinarie invenzioni, rivoluzioni e guerre mondiali hanno dato una spinta determinante a maggiori contatti tra i popoli e maggiori possibilità di scambi, oltre che culturali, anche di merci, di tecnologie e di vantaggiose opportunità. L’analfabetismo, nei primi decenni del secolo, era molto diffuso. Le scuole, all’inizio del secolo, erano ancora pressoché inesistenti. Qualche passo in avanti era stato fatto nel dopo Unità di Italia. Le lauree erano patrimonio di pochi privilegiati. Chi ne era in possesso veniva onorato e rispettato.
Fino a sette anni, oltre ai miei, ho avuto come maestra, anche nonna Carmela. Mio nonno materno era caduto al fronte nel 1916, secondo anno della Grande Guerra. Gli adulti pensavano ad educarci e a trasmetterci il loro sapere e le loro “arti e mestieri”.
Io sono nato quando già funzionavano le scuole pubbliche. Sono stato iscritto alla scuola elementare presso l’ edificio scolastico, che, oltre alle elementari, aveva anche le medie e le magistrali.
Dai maestri di casa sono passato a quelli titolati della scuola. Mamma, papà, nonna Carmela, ma anche i nonni paterni, continuavano, comunque, ad agire secondo le secolari e consolidate tradizioni. Da quando incominciai ad andare a scuola, mia madre è diventata alunna anche lei: era ansiosa di conoscere ciò che era scritto sui pochi sillabari che avevamo. A forza di leggere e di seguirmi memorizzava a meraviglia pagine e pagine.
Prima si imparava senza saper leggere e scrivere e senza libri. Si poteva attingere all’ immenso ed inesauribile patrimonio del sapere popolare, che si era formato nel tempo. Il tutto per via di pratica. I più giovani apprendevano ciò che vedevano o ciò che sentivano: detti, massime, filastrocche, favole, racconti. I racconti delle nonne ci incantavano. I fatti di guerra dei nonni e dei nostri padri accendevano la nostra fantasia e diventavamo guerrieri ed eroi anche noi. Così si formava e cresceva l’amore per la patria. Quando moriva qualcuno lo sapevamo tutti. L’annuncio mesto è disperato del campanone (si chiamava proprio così quel suono: “La Disperazione”), lo comunicava a tutto il paese. ” Quando senti suonare la campana, non chiedere chi è morto, perché una parte di noi stessi è andata via” aveva scritto Ernest Hemingway nel suo romanzo “Per chi suona la campana”, ispirandosi al poeta inglese Jhon Donne.
Gli artigiani erano bravissimi nei loro mestieri, i contadini nei loro campi, i pastori con le loro greggi. Lo erano anche quei pochi professionisti d’allora, come medici, notai, ingegneri, i capi delle autorità civili, militari e religiose, levatrici e pochi altri. E tutto era valido e funzionale. La vita scorreva normalmente, senza troppi traumi. Mia madre mi diceva spesso: “La vita è bella ad ogni età”. Ed era vero, perché si avevano le idee più chiare sul modo di vivere. Semplice, naturale e l’uno di supporto all’altro. Non ognuno per sé e Dio per tutti.
Le famiglie si riunivano in occasione del Natale o di altre feste particolari. Non si andava al ristorante o in altri locali alla moda, come si usa adesso, ma in casa. A volte si stava stretti, però si era più felici e spensierati. I bambini e pure gli adulti divoravano i dolci fatti dalle donne di casa. Non era roba da tutti i giorni come ora. Non ci si stufava di niente. Erano così rare quelle feste e i lunghi periodi che le separavano che quando arrivava il momento tanto atteso ci si buttava dentro con tutta l’anima. Si cambiava, diciamo, il solito modesto menù, costituito per lo più dal solo pane, quando c’era. Si sognava a volte una semplice “acqua sala d’ ova”, cioè fette di pane con acqua bollita e salata per ammorbidirlo. Sopra un filo d’ olio crudo. Chi ce l’aveva, ed era un lusso. ci buttava dentro uno o due uova.
Dopo le due guerre mondiali, il cambiamento totale. L’Italia da paese agricolo diventa paese industriale. Si arriva al boom economico, alle ferie, alle vacanze all’estero, alle discoteche, agli svaghi di ogni genere e a mille altre piacevolezze. Siamo riusciti perfino a realizzare l’ Unione Europea, ma, parafrasando Massimo D’Azeglio, .diciamo: “L’Europa è fatta, ora bisogna fare gli Europei”. E qui finisce.la favola bella.Avevamo dato tutto: dalla nostra cultura, dalla nostra ingegnosita, dal patrimonio culturale, artistico e archeologico alla nostra invidiabile arte inventiva e innovativa. Eravamo tra i primi nel mondo. Fino ai primi del XXI° abbiamo goduto, ma anche giocato con la ricchezza. E abbiamo perso. Ce la “semo magnata” la ricchezza. Ora c’è rimasta solo la monnezza, che non si sa dove metterla, perché ce n’è troppa dappertutto. Ce la potremmo spartire, almeno purificheremmo un po’ l’ambiente e l’aria.
Pino Pompilio

Comments

comments